Sipario ancora tirato. Platea piena di gente. Noi, in cerchio, davanti alle quinte.

“Merda, merda, merda!”

La tenda scorre via e lo spettacolo ha inizio. Di luce in luce, di volto in volto, di battuta in battuta. La storia, antica o moderna, vive. Poi, buio. Applausi, chiamata alla ribalta, altri applausi.
Ora invece sono in una stanza in affitto. L’imprenditore porta una tuta da ginnastica e i calzini di spugna, così come il marketing manager, la segretaria e gli altri componenti dell’azienda. Mi guardano, si guardano, ridono. Forse non si erano mai guardati veramente negli occhi. Forse non si erano mai fatti un sorriso.

Mi scollo dai ricordi e torno a leggere il giornale. Sono al bar a fare colazione, infagottato nella mascherina e isolato dal mondo. C’è un articolo che parla dei teatri, o meglio, c’è un giornalista che si chiede che fine faranno. Scopro che qualcuno ha trasferito il palcoscenico online, non senza fatica. Quasi tutti i Lavoratori delle Arti Sceniche aspettano ancora i fondi, e cercano di campare con altro. L’Unione Nazionale Interpreti Teatro e Audiovisivo (UNITA), una sera, aveva pure fatto accendere tutti i teatri per cercare di attirare l’attenzione, invitando il pubblico a mostrare solidarietà. È passato più di un mese, e non è cambiato nulla.

Perché i bar che fanno le brioches sono pieni, e i teatri sono vuoti?
Con questo dubbio amletico, mi alzo, pago il cornetto e mi avvio. Si va in scena.

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